Ritratto di un gigante guerriero

Aveva capelli e occhi molto scuri. I primi si schiarirono con l’età, e per uno strano scherzo biologico anche gli occhi diventarono sempre più verdi, forse a forza di guardare quelli di mia madre.

Era tanto grande che quando nacqui, mi sorreggeva con una sola mano; la sua pancia era così grossa che io e mia sorella giocavamo ad ammassarla e a condirla come una pizza, ed era tanto alto, che quando ci faceva stare a cavalluccio avevo una gran paura di cadere, ma sapevo che lui non l’avrebbe mai permesso. Che cadessi, o che avessi paura.

Ad ogni ora del giorno, la sua musica risuonava per la casa e tutt’oggi scandisce il ritmo dei miei giorni. Il suo era un inno alla vita e all’amore, fatto di cieli, di nitidi ricordi d’infanzia e imbevuto di nostalgia dai toni azzurrini. Le sue poesie con musica non solo mi insegnavano silenziosamente a vivere, ma a farlo con forza come lui, che più di tutti lottava ogni giorno per riuscirvi. E poi anche dopo tanti anni, ogni volta che mi sentiva canticchiare una delle sue canzoni si emozionava e sorprendeva come un bambino.

La notte, quando invece ero io bambina e non riuscivo a dormire, mi alzavo e andavo a cercarlo: sapevo che nella casa buia avrei sempre trovato lui, piegato forse su un disegno o intento a rileggere quella canzone che avrebbe lasciato per prepararmi un latte caldo con la stessa metodica fiducia di un druido con la sua pozione magica. In effetti, a qualunque ora della notte succedesse, poi tornavo a letto serena e sprofondavo in un sonno nero di bambina senza paure.

Aveva un vocione caldo, altisonante, che nelle sue canzoni trovava sostento e si rinvigoriva ogni giorno di più. E sulla bocca aveva sempre un nuovo aneddoto, una storia di cui ridere, un ricordo di infanzia da condividere, per tirarne fuori una morale, o no. Adesso mi pento di non aver trascritto ogni sua parola come fosse l’ultima.

Mi pento di essermi distratta nelle ansie di una vita in fin dei conti normale, mentre accanto ho avuto una persona forte di quelle che non incroci due volte nella vita. Era un gigante dolce e buono, che sorrideva con gli occhi e regalava tutto ciò che aveva, spogliandosi di tutto tranne della sua forza immane. Perché era ed è una roccia, il più forte dei guerrieri, che cantava la libertà e riusciva ad essere la persona più felice sulla terra con un piatto di pasta, il controcanto di una canzone o guardando il mare.

Ora sei libero papà. Puoi tornare a correre, a cantare, a sorprenderci tutti come una pioggia d’estate. Sarai quella vela lontana che vedevi a distanza di chilometri, e di anni; quel gabbiano delle tue canzoni che, portando via con sé il senso stesso del mondo, vola e va.

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